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Per le case della Lingua



Si nous pouvions entendre toutes les langues encore parlées dans le monde, nous aurions l’impression de gravir une gigantesque tour de Babel tant leur diversité reste grande. Pourtant, bien qu’ils soient encore des milliers, les idiomes disparaissent à une vitesse toujours plus grande en raison de l’homogénéisation linguistique qui s’est enclenchée au cours des deux derniers siècles, suite aux grandes colonisations de l’ère moderne d’abord, puis au développement de l’industrialisation et du commerce mondial.
Gianni Repetto, philosophe italien passionné par la diversité culturelle, souligne dans ce texte combien la fonction de communication des langues s’est peu à peu réduite à la faveur d’une mondialisation des affaires. La simplification linguistique nécessaire au développement international des « affaires » a même engendré la domination d’un code unique universellement compris et reconnu, actuellement représenté par l’anglais anglo-américain. Et si partout ouvraient des « case della lingua » pour résister ?



The Building of the Tower of Babel, Harvard Museum, retravaillé VBL
The Building of the Tower of Babel, Harvard Museum, retravaillé VBL

Ciò che avviene per il codice linguistico, avviene anche per l’economia e lo stile di vita dei vari popoli che sono sempre più omologati al modello dell’industrialismo occidentale, impostato sul consumo e sullo scarto, non solo di rifiuti spesso difficilmente biodegradabili, ma anche di vite umane indicate come inevitabili costi sociali. E questa progressiva disumanizzazione è accettata come indispensabile per continuare ad avanzare in quella concezione di progresso che vede nel Prodotto Interno Lordo (PIL/PIB) di un paese il Moloch inalienabile della civiltà contemporanea, a cui è indispensabile sacrificare salute e benessere sociale se si vuole progredire…
Ma verso dove? ci viene spontaneo gridare, sommersi da una propaganda a senso unico dei vari sistemi di potere, democratici o autoritari che siano. Perché tutti inseguono lo stesso obiettivo senza fine, come trascinati da una corrente che vada al di là delle loro stesse volontà. Quella folle corsa che tecnocrazia e capitalismo avanzato stanno portando avanti senza più conoscerne né le motivazioni né gli obiettivi, ma soltanto che si tratta di un treno in corsa che bisogna comunque prendere al volo per non restare indietro.


Indietro ?

Indietro? Ci fa sorridere amaramente sentirlo ripetere in televisione da autorevoli analisti politici ed economici oppure dagli amici che magari giocano in borsa per condividere il folle viaggio, ai quali però se chiedi qual è l’obiettivo di tutto questo non sanno che risponderti, che obiettivo?, così fan tutti!, ma non sanno indicartene uno che sia uno, un fine che abbia un senso per l’umanità.

Ma qui tremano i muri alla parola: umanità è una parola retorica, da buonisti religiosi e politici, che va bene per le chiacchiere improduttive, ma non per il sano imprenditorialismo che muove gli uomini migliori. Quelli che guardano avanti, con disprezzo nei confronti degli umani troppo umani incapaci di superare questo loro deleterio sentimentalismo.
Bisogna produrre benessere, che vuol dire affari, crescita, abolizione degli odiosi vincoli di difesa del lavoro che ne limitano la crescita. Bisogna aderire a questa idea produttiva, rinunciare alla propria identità individuale per far parte del progetto, sentirsi tutt’uno con questo organismo pulsante, reggerne i ritmi sempre più sostenuti con grande abnegazione e spirito di appartenenza e magari immolarsi con piacere purché vada sempre più velocemente avanti.

Uno strano benessere, che assomiglia sempre più a quello dello schiavo o del deportato che a un certo punto pensa che in fondo è giusto quello che gli tocca, che la colpa è soltanto sua e quindi deve essere espiata. E se non si è in grado di reggere a quel ritmo è giusto morire, vuol dire che forse hanno ragione coloro che dicono che c’è una razza eletta, che dicevano che c’era una razza eletta e le altre andavano gradualmente soppresse. Che sia in fondo questo il prototipo della postmodernità?


Una rivolta linguistica

E qui ritornano in ballo le lingue. Chiunque voglia imporre la propria agli altri compie un atto di genocidio. E gli bastano poche parole per essere capito, quelle che stabiliscono un rapporto gerarchico tra lui e tutti gli altri. Una lingua nella lingua. Una semplificazione autoritaria.
L’importante è che il sottoposto rinunci per sempre alla sua di lingua ed essa diventi di fatto una lingua morta. Solo così avrà la certezza di averlo completamente in pugno. Solo così riuscirà a cancellarne la Memoria

Ebbene, nonostante molti contesti linguistici siano in via di sparizione o addirittura ormai irrimediabilmente perduti, noi riteniamo che soltanto una rivolta linguistica possa salvare la Memoria dei popoli e preservarne l’identità. Che vuol dire libertà di pensiero e di appartenenza, di scelta e di decisione, di condivisione o di dissenso. Che vuol dire ridare un senso alla multiculturalità che ha caratterizzato nei secoli la vita dei popoli della terra.
E nessuno ci venga a dire che l’uniformità linguistica abbia facilitato e faciliti le relazioni tra questi popoli, perché se mai li ha omologati coattivamente a quel pensiero unico nato nel mondo occidentale con la pretesa di insegnare a tutti gli altri un’idea più progressista e democratica della convivenza umana, salvo poi di fatto smentirla una volta che è riuscito ad imporla.

Ecco che allora, se questi popoli reagiscono all’invasione che, da concettuale, si è tradotta in occupazione concretamente economica e civile, immediatamente il centro dell’ideologia a senso unico del capitalismo occidentale rispolvera le sue origini nobili, quando nelle grandi rivoluzioni dell’età moderna inneggiava alla libertà e all’autodeterminazione dei popoli oppressi, e le contrappone alla barbarie di queste riscosse identitarie, pur sapendo benissimo che esse sono il frutto del suo grande inganno

È per queste ragioni che l’unica possibile riumanizzazione del mondo passa attraverso il recupero predominante e funzionale delle lingue dei vari popoli, intendendo per esse la molteplicità delle espressioni linguistiche presenti nei territori e non certamente la costrizione unitaria nazionalistica che l’idea totemica di nazione ha imposto storicamente con retorica e arroganza. E non ci si dica che questa sarebbe un’operazione di retroguardia, un velleitarismo nostalgico da accademia paesana, una divisione ulteriore quando invece ci sarebbe bisogno di unità, perché sarebbe se mai un ritorno al pensiero autonomo, a un autoriconoscersi in una storia vicina, quotidiana, comprensibile e condivisibile, a un riscoprire un percorso di autodeterminazione che la globalizzazione ha completamente spazzato via.


Diversità face ricchezza

Ma questo significherebbe ritornare ai particolarismi delle epoche buie della storia, potrebbe obiettare qualcuno. Magari dimenticando che la molteplicità culturale e linguistica dei luoghi ha sempre espresso armonia, integrazione, capacità di convivenza.
Senza il soffiare sul fuoco di chi dall’alto, sulla base di pretestuose rivendicazioni nazionalistiche, voleva innescare la crisi per poi risolverla autoritariamente a suo beneficio, non sarebbero mai avvenuti i massacri interetnici spesso imputati alle diversità identitarie. È avvenuto così ovunque nel mondo, dagli scontri definiti etnici nell’Africa della decolonizzazione a quelli anch’essi ritenuti tali nell’Europa balcanica

Che fare, dunque, per almeno provare a riavvolgere indietro il nastro delle nostre Storie? Non servono rivoluzioni come quelle che hanno dato vita all’età contemporanea, l’umanità non ha più bisogno di rivoluzioni che per lo più le si sono poi rivolte contro, anche a chi magari l’aveva sostenute.
Occorre se mai riacquisire consapevolezza del nostro passato, della nostra Memoria locale, e alla luce di questa riannodare quel filo condiviso e solidale che la civiltà del consumo e dello scarto ha strappato e spazzato via inesorabilmente.
Per ritrovare orgoglio individuale e di gruppo, per capire che soltanto con una radice di principi ben radicati nel tempo è possibile confrontarsi con gli altri alla pari e non subire più le vecchie e le nuove colonizzazioni che hanno sempre la stessa matrice, quella di chi non si riconosce in nessuna radice se non quella del profitto e del dominio personale, di chi interpreta la comunità come un terreno da sfruttare e non come un’appartenenza affratellante, all’interno della quale si condivide la sorte di ciascuno nel bene e nel male.


Aprire case della Lingua

È a partire da queste considerazioni che proviamo a lanciare una proposta per il futuro, che per realizzarsi non può essere episodica ed estemporanea, ma deve avvenire in modo capillare sui territori, addirittura in ogni borgo grande o piccolo che sia: aprire ovunque delle Case della Lingua in cui gli ultimi testimoni di quelle esperienze comunitarie le raccontino ai giovani nelle lingue originarie locali, anche a coloro che si sono stabiliti in quegli stessi luoghi recentemente e che hanno bisogno dunque di radicarsi, in modo da creare una rinnovata identità locale che metta a frutto quel passato, talora anche mitico, proprio della Storia locale e il vissuto di questi nuovi arrivati qualunque esso sia.
E creare così una nuova prospettiva comunitaria rispondente ai tempi, ma capace, grazie a questo incontro solidale e al suo saldo radicamento, di rispondere alle sfide della postmodernità in modo originale e indipendente, al di fuori della coazione omologatrice del governo economico/finanziario  del mondo.
Piccole isole di libertà e di lingua che, se sapranno coniugarsi tra di loro, saranno le uniche in grado di mettere in crisi il pensiero unico a cui oggi sembriamo condannati e di riaprire spazi alla multiculturalità e alle sue costruttive interazioni.


Dimanche 1 Juin 2025
Gianni Repetto


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